De Zolt verso i 70 anni: «Ecco il segreto dell’oro di Lillehammer»

Campolongo
Sua maestà Maurilio De Zolt compie 70 anni. Settanta candeline, il prossimo 25 settembre, per il Grillo di Presenaio, il fondista per il quale le fabbriche chiudevano quando gareggiava, l’atleta che ha fatto innamorare degli sci stretti più di una generazione, il vigile del fuoco che, arrivato tardissimo nel fondismo che conta, ha saputo diventare campione del mondo e campione olimpico.
Settant’anni per un atleta fortissimo che però, sempre, anche nei momenti dei massimi trionfi, è rimasto Maurilio. E questa, al di là del motore potente, più della volontà d’acciaio, oltre l’infinita voglia di vincere, questa, dicevamo, è stata ed è la sua forza. Lo abbiamo incontrato a Campolongo, dove abita. Una chiacchierata per ripercorrere vita e carriera, insieme al “pretoriano” Marcello Pomarè (l’uomo che ha seguito Maurilio con passione immensa per tantissimi anni e che sta organizzando la grande festa di compleanno di sabato 26 settembre) e agli amici Sandro “Seghetto” Pomaré e Fernando Coluzzi.

Maurilio, cominciamo dall’inizio …
«Il primo paio di sci, fatti in legno da mio papà, me li regalò Gesù Bambino quando avevo sei anni. Dopo non molto, saltando mi ruppi una gamba ma dopo una ventina di giorni ero già fuori, di nuovo sulla neve».
Quando le prime gare?
«I primi appuntamenti agonistici, attorno ai dodici anni, nella corsa a piedi. A sedici, invece, le prime gare zonali sugli sci. Con la famiglia ci eravamo trasferiti temporaneamente a Cima Gogna – mio padre lavorava alla segheria De Pol – in seguito all’alluvione del 1966 e io iniziai a gareggiare con lo Sci club Valpiova di Laggio».

Da lì, non ti sei più fermato. Nonostante in molti ti considerassero vecchio. Nonostante il trasferimento per lavoro a Belluno.
«Sì, non è stato facile. Lavoravo alla Holzer e tornavo in Comelico il fine settimana. Mi allenavo e non badavo ai risultati. A me piaceva gareggiare, amavo l’agonismo e poco mi importava se in tanti mi dicevano: “Ma dove vuoi andare”? Nelle gare nazionali a inizio stagione arrivavo dopo i quaranta ma alla fine riuscivo a stare davanti».
Qualcuno comunque a quei tempi in te ha creduto.
«Sì, uno in particolare, Stelio Busin, di Falcade. Era stato in nazionale e prestava servizio nei Vigili del Fuoco a Santo Stefano. Mi ha seguito bene, mi ha dato delle belle nozioni. Ogni tanto si arrabbiava perché diceva che non lo ascoltavo. Ma forse (ride, ndr) era solo invidioso perché andavo più forte di lui. Un altro tecnico che ha creduto in me è stato Dario D’Incal: mi ha voluto in nazionale quando tutti dicevano che ero troppo vecchio per vestire l’azzurro».

Il primo titolo italiano a 27 anni.
«Sì a Monte Livata, sopra Subiaco. Nella 50 chilometri battei Kostner e Ponza».
Da allora un crescendo impressionante. Nel tuo curriculum ci sono un oro (la 50 km di Obersdorf 1987), tre argenti e due bronzi ai Mondiali, 1 oro (la staffetta di Lillehammer 1994) e due argenti alle Olimpiadi. Qual è stata la medaglia più bella?
«L’oro nella staffetta ai Giochi di Lillehammer e quello nella 50 mondiale di Oberstdorf senz’altro, ma tra le soddisfazioni alle quali tengo di più c’è senz’altro il terzo posto nella 15 chilometri iridata di Seefeld ’85. Dicevano che non sapevo pattinare, e invece … Quel bronzo fu un sogno che si realizzava».
Lillehammer, una vittoria conquistata insieme al tuo vicino di casa Silvio Fauner.
«In quegli anni tra Comelico e Sappada facevamo mezza nazionale. A Silvio devo dire grazie perché è grazie al suo spunto se siamo diventati campioni olimpici».
In realtà i tecnici volevano schierare te in ultima frazione.
«Sì, è così. Ma io dissi loro che quella era una soluzione buona solo per il podio. Se volevamo l’oro io dovevo fare il lancio e Silvio l’ultima frazione. Alla fine, è andata proprio così. Noi sul gradino più alto del podio, davanti alla Norvegia padrona di casa. Che Olimpiadi quelle, mai visto uno spettacolo di gente così».
Hai partecipato a ben cinque Olimpiadi.
«La prima volta a Lake Placid ’80. Ricordo il grande freddo: nella 15 chilometri partii con mani e piedi gelati, mi scaldai solo all’arrivo. A Sarajevo ’84 trovai una neve troppo bagnata per le mie caratteristiche. A Calgary ’88 la prima medaglia, secondo nella 50 chilometri dietro al “cigno” svedese Gunde Svan. Ad Albertville ’92 il secondo argento, ancora nella 50 chilometri, questa volta alle spalle del norvegese Bjørn Dæhlie. Mi piace sottolineare come sulle Alpi francesi le medaglie del Comelico furono due: il mio argento e quello di Giuseppe Puliè, secondo in staffetta insieme a Vanzetta, Albarello e Fauner».
Quali i rimpianti più grandi?
«La medaglia d’oro che mi è sfuggita alle Olimpiadi di Calgary ’88. E la 30 chilometri ai Mondiali di Falun ’93, dove ho chiuso all’ottavo posto. In entrambe le occasioni mi sono fidato degli skimen e ho sbagliato. Se avessi fatto di testa mia… Al momento mi sono infuriato, ma ora non getto loro la croce addosso: hanno sempre fatto di tutto per farci vincere, gli errori ci stanno e vanno accettati. In ogni caso non ho rimpianti: dalla mia carriera ho ottenuto più di quanto mi aspettassi. Sono nato per correre, gareggiare e sono riuscito a farlo al meglio, avendo anche l’opportunità di girare il mondo in lungo e in largo».
Approfondiamo anche un altro tema: Maurilio e i materiali.
«Per me sono sempre stati una passione. Mi piaceva sperimentare, capire, conoscere. Un atleta dovrebbe conoscere bene i propri sci e saperli preparare da solo. Invece oggi molti non sanno nemmeno sciolinare. Alle gare giovanili dovrebbero lasciare che i ragazzi si arrangino invece di preparare loro tutto. Ricordo che la pista per allenarmi, io me la battevo da solo. Una volta, quando ancora non gareggiavo, battei addirittura la pista per il Trofeo De Villa che si correva tra Presenaio e Campolongo. Sempre a proposito di materiali: oggi gli atleti di vertice hanno dalle trenta alle quaranta paia di sci e io mi domando se effettivamente sia una cosa utile. Io ne avevo due paia».
Parliamo dei tuoi rivali. Chi sono stati quelli che più ti hanno impressionato?
«Uno su tutti, il gigante finlandese Juha Mieto, una forza della natura ma anche una persona semplice. Mi piaceva anche lo svedese Thomas Wassberg».
Qualcuno ti intimoriva?
«Nessuno. Io partivo per arrivare primo e basta».
Quando correvi tu fabbriche e scuole chiudevano. E il popolo degli sci stretti invadeva le piste per vederti, tifarti, abbracciarti. Nessuno come te ha saputo riempire i “templi” dello sci di fondo: a Sappada, alla 50 km dei Tricolori del 1986, erano in 15 mila lungo i binari, giunti fin lassù addirittura a piedi, dopo aver superato le slavine che avevano ostruito la statale che portava al paese. Ai Tricolori del 1987, il Nevegal era pieno zeppo di tifosi, corsi per assistere a una 50 km memorabile, preludio a quanto sarebbe successo qualche settimana dopo nella tedesca Oberstdorf, divenuta per un giorno provincia bellunese. Come spieghi questo amore della gente nei tuoi confronti?
«Mi fermavo con tutti. Con i più vecchi giocavo alla mora. Vivevo da persona normale. Cosa che, credo, ora per un atleta è molto più difficile fare. Per me i tifosi rappresentavano una forza, uno stimolo per superare i momenti difficili. Avere tanti tifosi, e così calorosi, era anche una responsabilità. Una grande soddisfazione fu per me avere anche tanti tifosi al Nord».
Già, il Nord.
«Posti bellissimi, soprattutto in Norvegia. Ma anche la Finlandia: ricordo che a Ivalo mi allenavo su un giro unico di 50 chilometri: bellissimo. Del Nord ricordo anche i lunghi raduni autunnali per preparare la Coppa del mondo: a me mangiare “straniero” non piaceva proprio e così mi portavo su spaghetti, pancetta e vino per mangiare come a casa. Poi portare il cuoco è diventato la prassi e ci hanno copiato anche i discesisti. Sempre parlando di cibo, era bello andare a pesca nei laghi ghiacciati: che soddisfazione mangiare il pesce fresco! Del Nord mi piace ricordare anche gli allenamenti intensi. A volte facevo 100 chilometri in una giornata: allenamento sugli sci al mattino, allenamento sugli sci al pomeriggio e, alla sera, una corsetta defaticante di 5 chilometri».
Quanti chilometri hai percorso nei quasi vent’anni di carriera?
«Duecentomila tra sci, corsa e skiroll. 10 mila all’anno».
Che cosa è la fatica per te?
«Quando sei allenato la fatica è piacere».
Materiali, alimentazione, allenamento: quanto facevi di testa tua?
«Io ascoltavo consigli e suggerimenti ma poi valutavo e decidevo che cosa era meglio per me, in base alla mia esperienza, alle mie sensazioni».
Quali erano i tuoi punti di forza?
«Si possono riassumere in uno solo: la voglia di arrivare».
Ti sei mai sentito una bandiera per il tuo Comelico?
«Sono sempre stato e sono orgoglioso di essere italiano, bellunese, comeliano. Ma un simbolo direi di no. Sono sempre stato e sono Maurilio, una persona normale».
Hai mai avuto la tentazione della politica?
«In passato qualche proposta mi è stata fatta ma io ho sempre declinato. Non ci sono portato».
Come vedi lo sci di fondo di oggi?
«Hanno voluto fare il fondo spettacolo, con le sprint e le partenze in linea, e hanno rovinato tutto. Lo sci di fondo è cronometro».
Il biathlon invece …
«Una disciplina appassionante. Era il fratello povero del fondo ma ora la gerarchia si è ribaltata».
Hai mai pensato di fare il tecnico?
«Per un paio di stagioni ho fatto il tecnico delle impronte con la nazionale. Ma per me viaggiare era ed è uno stress. Per questo non ho voluto proseguire su quella strada. La mia vita è qui in Comelico».
Ti vediamo sempre in grande forma.
«Peso tra i 66 e i 68 chili, all’incirca il peso forma di quando correvo. Faccio camminate nei boschi, vado a funghi, preparo la legna, vado a caccia, curo orto e galline. Spesso vado anche a correre, al mattino presto. E d’inverno via con gli sci alpinismo». —
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