Dino Tadello, l’africano di Cavarzano compie 70 anni. «Quando corri sei libero»

Nel 1988 divenne campione del mondo di corsa in montagna. 

«Con il lavoro mi allenavo meno degli altri, ma la passione era tanta»

Dino Tadello in una corsa in montagna negli anni 90
Dino Tadello in una corsa in montagna negli anni 90

Compie oggi 70 anni uno dei talenti più puri espressi dallo sport bellunese.

Un atleta che è sinonimo di corsa, un uomo che vederlo correre rimanevi (ma rimani ancora oggi) incantato tanto il suo gesto era (è) leggero e allo stesso tempo efficace, fluido e vigoroso, armonioso e potente. Un bianco con una corsa da uomo degli altipiani africani, lo ha definito qualcuno. Compie oggi 70 anni Dino Tadello, uno che tra gli anni Settanta e gli anni Novanta ha fatto cose importanti: una su tutte, ha vinto il titolo mondiale di corsa in montagna nel 1988.

Ma Dino sapeva andare forte - fortissimo – anche su strada (1h04’36” nella mezza, a Brescia, 2h18’ in maratona, a Venezia), in pista (personale di 3’57” sui 1500, di 14’16” sui 5 mila, di 29’45” sui 10 mila e 19,460 chilometri sull’ora) e nel cross.

Classe cristallina, motore pazzesco. La corsa nel sangue, nel Dna. Tanto che, passati i 60, correva a 3’45” a chilometri e che oggi continua a correre. Ieri, dopo essersi lasciato alle spalle un 2024 tribolato per via di qualche problema di salute, è stato uno dei protagonisti di Vertical Sherpa, manifestazione che è un po’ passeggiata e un po’ corsa in montagna, 700 metri all’insù tra Tisoi e la Talvèna.

Dino, non ti fermi mai.

«Ho rallentato un po’ nel corso di questo 2024, un anno nel quale ho dovuto convivere con qualche problema. Sono stato anche ricoverato in ospedale, io che non ero quasi mai stato dal dottore. A proposito di dottori, ringrazio il dottor Federico Coppa (chirurgo al Santa Maria del Prato ed ex allenatore del Rugby Feltre, ndr) che mi ha rimesso a posto. Adesso sto bene, vado a correre e sono felice. Felice forse è una parola grossa. Felice non lo so. Sereno sì. Un giorno vado a farmi una corsetta leggera col cane da Barp, dove abito, alla chiesetta di San Giorgio, sono 650 metri di dislivello. Un giorno sto fermo. E un altro giorno mi faccio altri giretti più leggeri, tra Pascoli e la Talvena. Mi diverto per i boschi».

La corsa che cosa rappresenta per te?

«Correre a me piace. La amo, la corsa. La corsa mi ha aiutato e mi aiuta a stare bene. La corsa è meglio di una vacanza: c’è chi per rilassarsi va al centro benessere o in qualche posto esotico: a me basta mettere le scarpe e andare sui sentieri».

A proposito di sentieri. Il tuo nome nello sport è legato alla corsa in montagna.

«Non vorrei che nessuno si offendesse ma per me la corsa in montagna è stata una sorta di ripiego. Non ero un professionista: lavoravo e dovevo allenarmi nel tempo libero, la corsa in montagna mi consentiva di farlo meglio rispetto alle altre discipline. E mi sono tolto belle soddisfazioni».

Strepitoso il titolo iridato di Keswick nell’autunno del 1988, quando il Mondiale si chiamava ancora “World Trophy”.

«In Inghilterra vinsi la lunga distanza davanti a un altro azzurro, Davide Milesi. Quarto arrivò l’alpagoto Luigino Bortoluzzi. Andai in testa dopo una ventina di minuti e non mi ripresero più. Fu una bella soddisfazione, arrivata al termine di una trasferta un po’ travagliata, nella quale dormimmo in un ostello con camerate da trenta posti e più. Proprio la notte della vigilia, dato che in camerata non si riusciva a dormire, uscii e prenotai un albergo: dormii come un Papa. E al mattino vinsi. Da quel successo non ricavai una lira. Anzi, ci fu qualche muso lungo nello staff tecnico azzurro perché ero arrivato davanti a certi azzurri … Ma i ricordi belli legati alla corsa in montagna sono davvero tanti: dalla storica e durissima Sierre-Zinal (31 chilometri di sviluppo e 2 mila metri di dislivello in 2h41’ nel 1987, ndr), gara che mi “mangia” perché sbagliai ad alimentarmi, al “Trofeo Piero e Paolo”, la staffetta a due che si correva sui miei sentieri, quelli tra Cavarzano e Col di Roanza, al Trofeo Bruno Boz, in Val Canzoi, una delle mie gare a staffetta preferite. Uno dei ricordi più belli è relativo al Trofeo Busin di Falcade, quando battei di una quarantina di secondi il record di frazione che apparteneva a un certo Gelindo Bordin. Era il 1988, quel giorno vinsi davanti a Luigino Bortoluzzi e Lucio Fregona, con Maurilio De Zolt ottavo».

A proposito di campioni, qualche atleta della corsa in montagna ti ha colpito di più?

«Il veronese Alfonso Vallicella: lo considero il più forte atleta della corsa in montagna che abbia incontrato, oltre che una persona stupenda. Ricordo con piacere che a Keswick vincemmo entrambi il titolo iridato: io nel lungo, Alfonso nel corto. Ed entrambi eravamo civili, non appartenenti a gruppi sportivi militari. Con Alfonso siamo stati anche compagni di squadra, alla Paf Alitrans, il club che mi ha permesso di fare un bel salto di qualità».

Facciamo un passo indietro. Come hai cominciato a correre?

«A 13 anni presi parte a una campestre e vinsi. Ma quello fu un episodio. Ho iniziato a correre seriamente attorno ai 17 anni, con il Gs Schiara. Da allora non ho quasi più smesso di correre e di gareggiare».

Quali erano i tuoi punti di forza?

«Ci credevo sempre. La fantasia, abbinata forse a un po’ di talento, mi faceva fare delle belle cose anche se non ero allenatissimo. Credo che uno dei miei punti di forza fosse pure la tranquillità: non sentivo la pressione. Per me correre era una cosa naturale, era un modo per stare bene, sia che andassi a farmi un giro verso Col di Roanza sia che gareggiassi e, di conseguenza, non mi mettevo addosso pressione quando andavo alle gare. Questo ha fatto sì che, ogni tanto, arrivassi alla linea di partenza pochi minuti prima del via, mettendo in allarme gli organizzatori. Tecnicamente, per quanto riguarda la corsa in montagna, avevo doti particolari di discesista: nessuno riusciva a sviluppare una corsa efficace come la mia in discesa».

Oggi nello sport si parla molto di watt, misuratori di potenza…

«Un giorno mi hanno regalato il cardiofrequenzimetro. Lo ho usato una volta sola, per andare al Settimo Alpini: ma quando sono arrivato al Ponte di Mariano, dove inizia la salita per il rifugio, me lo sono tolto: non riuscivo a tararlo, non me ne fregava niente. Magari - chissà - se fossi stato più metodico avrei ottenuto di più. O forse no. Perché per me la corsa era, innanzitutto, libertà».

Dicevi la corsa in montagna è stata una sorta di ripiego.

«A me piaceva soprattutto la strada. Ricordo con piacere, in questo senso, il terzo posto ottenuto al Giro dell’Umbria a tappe. Bellissima era, qui a Belluno, la Doppia Traversata. In maratona ho un 2h18’ a Venezia e un 2h20’ a Firenze. Un anno a Berlino avevo una proiezione di 2h14’ ma un problema alle anche che mi portavo dietro mi ha stoppato».

Dino Tadello andava forte anche nel cross.

«Qualcosa di buono ho fatto anche nelle campestri, sì. Mi piace ricordare il quarto posto al Cross Pradelle nel 1988, dietro al portoghese Fernando Mamede, all’inglese Roger Hackney, all’austriaco Gerhard Hartmann e a Sergio Pesavento. Mamede qualche settimana dopo stabilì il recordo mondiale sui 10 mila. Ricordo anche il nono posto alla Cinque Mulini, conquistato dopo essere partito da Belluno quasi a metà mattina ed essere arrivato alla partenza a meno di un’ora dal via. Fu una trasferta avventurosa: andai a San Vittore Olona con la Renault 5 Turbo del mio titolare di allora, la macchina a un certo punto ebbe dei problemi ma io e mio fratello Franco, decidemmo di non fermarci a ripararla perché altrimenti non saremmo arrivati in tempo. In qualche modo arrivammo, corsi e feci top ten».

Spesso c’era tuo fratello ad accompagnarti nelle trasferte.

«Per me una presenza fondamentale».

Tante avventure legate alla corsa.

«Anni che mi piace definire di vita picaresca. Trasferte che erano, davvero, avventure. Come quella della mezza maratona di Losanna: era la metà degli anni Ottanta e lavoravo alla Dolomitibus, nel fine settimana c’era uno sciopero dei treni e noi garantivamo il servizio con i nostri autobus. Feci Belluno-Bergamo quattro volte in 24 ore e poi, al mattino alle 6, da Belluno ripassai per Bergamo per la quinta volta per andare a gareggiare».

Qual è stato il posto più bello visto grazie alla corsa?

«Dico l’Umbria. Ma anche l’Orecchiella, in Garfagnana, e Castelbuono, in Sicilia. Ma un posto bellissimo per correre è anche la strada che porta al rifugio Bianchet, dietro allo Schiara: correre tra i faggi era una cosa fantastica».

Quali le delusioni della tua carriera?

«Quando mi accusarono di scarso impegno nell’attività. Lavoravo nei trasporti, viaggiavo tutta la settimana tra Italia e Germania con il camion, il tempo per allenarmi era quel che era: quell’accusa mi fece davvero male, al punto che smisi di gareggiare per qualche stagione. Ma poi ripresi perché senza la corsa ero un pesce fuor d’acqua. Una grande delusione è stata anche quella di non essere potuto entrare in un corpo militare».

La soddisfazione più grande?

«Non c’è una gara particolare. La soddisfazione più importante se mi guardo indietro è stata la capacità di non abbattermi e di ripartire sempre. Quella di essere riuscito a fare, nella normalità di una vita divisa tra lavoro e famiglia, qualcosa di buono nello sport. La corsa è stata, per usare le parole di un autore che mi piace molto, Tiziano Terzani, un gran bel giro di giostra».

E allora tanti auguri Dino. E che i tuoi racconti siano di ispirazione per gli atleti bellunesi più giovani.

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