Massimo Da Rin e il miracolo sfiorato contro la Corea
MILANO. Il jet lag si fa ancora sentire. Di solito ci vuole qualche giorno per tornare pienamente in forma. L’ampezzano Massimo Da Rin però non ha chissà quanto tempo a disposizione. Deve essere subito pronto, perché i playoff del suo Milano non possono certo attendere. È in corso la serie di semifinale contro Appiano, ultimo ostacolo prima di potersi giocare il titolo dell’IHL, la vecchia serie B.
Ma con il coach ampezzano non vogliamo ora parlare della sua avventura rossoblù. Lo faremo più avanti nell’intervista, naturalmente. Vogliamo infatti partire da un altro aspetto. O meglio, da una recente delusione. Che poi, parlare di delusione è quasi esagerato quando ti spingi lì dove mai eri arrivato.
Da Rin allena da 12 anni la nazionale di Para Ice Hockey, il vecchio “hockey su slittino”. E sabato scorso la sua Italia è andata vicinissima ad un traguardo storico: la prima medaglia paralimpica. Non è andata bene, nel senso che la finalina per il bronzo l’ha vinta la Corea con un gol parecchio fortunoso.
«Dispiace, inutile girarci attorno. L’impressione è quella di aver perso un treno che non è detto possa tornare a breve. Sai, se soccombi di tanto almeno hai la consapevolezza che di più non potevi fare. Ma dover essere battuti 1-0 per un tocco fortuito di pattino del giocatore coreano… Resta però la soddisfazione di essere arrivati sin lì, superando per la prima volta la fase a girone di una Paralimpiade. In realtà, dal ranking di quest’anno, avevamo colto la possibilità di toglierci delle soddisfazioni. D’altronde, da Torino 2006 in poi, siamo sempre migliorati».
Quando è arrivata la chiamata per seguire questa nazionale?
«Nel 2004 allenavo in Valpellice. Andrea Chiarotti, oggi team manager azzurro, era stato incaricato di guidare la nazionale allestita in vista delle Paralimpiadi di Torino. Lui però preferiva solo giocare, quindi ha chiesto al sottoscritto di assumere il ruolo di coach. Mi è piaciuto subito e d’altronde tutt’ora lavoro con ragazzi eccezionali, sempre entusiasti di praticare uno sport nonostante le rispettive disabilità».
Eppure non deve essere la stessa cosa allenare l’hockey e il Para Ice Hockey.
«Naturalmente devi adattarti alle necessità. Qui di fatto, per fare un esempio, non vai mai all’indietro, se non per cambiare direzione. Ecco, già questo ad esempio condiziona le fasi difensive… Ci sono molti stili e situazioni tecniche differenti».
Chissà che le vostre Paralimpiadi, vissute alla grande nonostante la mancata medaglia, non siano d’aiuto per convincere altre ragazzi meno fortunati a praticare questo sport.
«Speriamo, di certo tali appuntamenti così mediatici aiutano. Al momento abbiamo tre formazioni in Italia: i South Tyrol, i Tori Seduti di Torino e l’Armata Brancaleone Varese. Ancora non contiamo certo sui numeri di altre nazioni. Faccio un esempio: la Cina, che ospiterà i Giochi invernali del 2022, ha già 15 squadre di Para Ice nel proprio campionato».
A proposito di Olimpiadi e Paralimpiadi. Immagino che saprà bene dell’idea italiana di provare ad ospitare i Giochi 2026. Si parla di Torino e soprattutto delle Dolomiti Unesco. Si è già fatto un’idea sulla questione, magari raffrontando quanto ha appena visto in Corea?
«A livello di piste da sci, credo le Dolomiti possano garantire qualità superiore rispetto all’evento coreano. Però sai, ad esempio occorre avere adeguate strutture per gli impianti di pattinaggio, short track, curling etc. , con una certa capienza minima. Poi ci sono i costi legati alla costruzione del villaggio olimpico. Devo dire che questi Giochi sono stati molto più tranquilli e “sobri”, rispetto magari a Sochi o Vancouver. Altro aspetto che incide tantissimo alle Olimpiadi riguarda il numero di volontari: arrivano da tutto il mondo ed hanno un ruolo fondamentale nei vari aspetti come i trasporti, le mense, le statistiche…».
Transitando dal Para Ice hockey all’hockey, quanto è stata dura non essere accanto al “suo” Milano durante i combattuti quarti di finale contro Caldaro, risolti solo a gara 5?
«Per fortuna abbiamo creato un gruppo molto forte, reduce dalla doppietta campionato – Coppa Italia della passata stagione e dalla conquista recente di un’altra Coppa Italia. Ma è stata ugualmente dura, anche se adesso sono già pronto a rituffarmi nel finale di stagione».
Milano però, come seguito e quant’altro, meriterebbe un altro palcoscenico rispetto alla serie B. Come giudica lo “smembramento” della serie A tra Ebel, Alps League e IHL?
«Da ogni discorso escludo il Bolzano, che partecipa ad un campionato di livello parecchio alto. Per il resto si stanno facendo delle prove, anche se a conti fatti noi e Fiemme facciamo gli stessi spettatori di alcune squadre al vertice dell’Alps League. Poi ci sono realtà che considerano positiva l’esperienza in Alps, però se come Milano partecipassimo a questo torneo avremmo un esborso doppio a livello economico, ma non un raddoppio dell’interesse. Ecco, vi fosse la possibilità, il vero trasloco significativo sarebbe il passare in Ebel».
Ha giocato a Cortina negli anni d’oro dell’hockey bellunese. Adesso la sua ex squadra non si qualifica neppure ai playoff di Alps, mentre Alleghe e Feltre languono nella metà bassa di classifica in B. Cosa si è sbagliato nel frattempo?
«Già, impossibile dimenticare i derby con l’Alleghe e i commenti di Fabio Guadagnini, proprio colui che ora occupa il ruolo di responsabile della comunicazione del Milan. Siamo rimasti fermi purtroppo, però non sono negativo guardando al futuro. Le società stanno lavorando bene con il settore giovanile, e molte squadre under si sono spinte parecchio avanti nelle rispettive fasi finali dei vari tornei. Insomma, se si ritornerà magari un giorno al compromesso di un campionato tutto nostro con un paio di stranieri e la base locale, credo le formazioni bellunesi potranno dire la loro».
Cosa ne pensa dell’avventura con la nazionale di Giorgio De Bettin?
«Siamo amici e so quanta passione mette in questo lavoro. Chi fa l’allenatore di hockey non può certo avere in testa il guadagnare, perché di soldi ne girano sempre meno, ma deve invece pensare prima di tutto ad imparare. E questo lo si fa solo provando a mettersi in gioco dove il risultato conta davvero, come lui a Cortina nel ruolo di vice allenatore e team manager. Occorre voglia di fare se si vuole arrivare a determinati traguardi».
Torna mai da queste parti?
«Certo, anche perché mio fratello e mia mamma vivono ancora lì. D’altronde Cortina è sempre Cortina. Appena gioco nelle vicinanze faccio un salto ben volentieri».
E chissà che magari, tra quattro anni, non possa pure portare con sé una certa medaglia olimpica…
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