Savaris, una vita sul ghiaccio con la stecca e con il fischietto

È stato protagonista degli anni d’oro del Cortina: «Eravamo sempre ai primi posti e avevamo un gran seguito»



Dalla stecca al fischietto. Può essere sintetizzata così gran parte della vita dell’ampezzano Ruggero Savaris. Un uomo che ha fatto parte della storia dell’hockey italiano, prima come giocatore negli anni d’oro del Cortina, poi come grande arbitro circondato da fama e rispetto. E proprio dallo stadio Olimpico tutto è partito nel lontano 1965 quando per la prima volta Savaris, classe 1947, ha indossato la casacca della prima squadra degli scoiattoli. Una maglia che da lì ai successivi sedici anni avrebbe regalato a Ruggero tante soddisfazioni, gioie e vittorie.

«Erano gli anni d’oro dell’hockey ampezzano. La squadra aveva un grande seguito di pubblico ed eravamo sempre e costantemente ai primi posti, non solo in Italia ma anche in Europa. Proprio in quel periodo, dopo le Olimpiadi del 1956, è iniziato un bellissimo ciclo per il Cortina e in quel lasso di tempo in cui ho giocato siamo riusciti a vincere ben 9 scudetti. Ho fatto parte di un ventennio che qui in paese sarà difficile dimenticare».

Un momento magico, con grandi giocatori in maglia biancoblu ma soprattutto con poche squadre all’altezza di competere con quella ampezzana.

«Eravamo tra i più forti e i risultati lo hanno testimoniato. Con noi potevano competere solo Bolzano e Milano, che ci davano spesso filo da torcere. Un anno c’è stato pure un exploit del Gardena ma è un’eccezione. Ho avuto il piacere e l’onore di giocare con dei grandi, tra tutti però ricordo gli italiani Giovanni Mastel, Alberto e Gianfranco Da Rin».

Una bella carriera, sempre e solo in difesa della squadra del suo paese, che Savaris ha deciso di concludere nel 1981. Nel curriculum anche tante esperienze son la nazionale. Dopo pochi mesi però ecco che davanti a Ruggero si apre una nuova strada, quella della carriera arbitrale.

«Non appena terminai di giocare a hockey, alcuni membri che conoscevo della federazione, mi chiesero se volessi provare a cimentarmi nell’arbitraggio. Colsi la palla al balzo ed iniziai subito a dirigere qualche incontro tra i ragazzi. Poco a poco cominciai a farmi strada e così iniziò la mia carriera da arbitro».

Pochi giocatori di quel periodo possono dire di non essere stati arbitrati da Savaris, che ha avuto il merito di diventare un’istituzione dell’arbitraggio italiano ed internazionale.

«Come capo arbitro sono arrivato anche ad arbitrare partite fondamentali anche a livello europeo. Ho diretto quattro gare ai mondiali del 1992 e a quelli del 1993. Senza dimenticare le pre Olimpiadi e le Olimpiadi del 1994 a Lillehammer in Norvegia. Belle esperienze e soddisfazioni».

Ma qual era il suo rapporto con i giocatori?

«Posso dire di essere stato sempre rispettato da tutti. Ovviamente durante la partita succedono degli episodi in cui la tensione aumenta, ma questo è normale. Il fatto di essere stato a mia volta un giocatore mi ha aiutato molto nei rapporti che si sivluppano sul ghiaccio. Anche l’arbitro fa parte del gioco e può sbagliare come tutti. L’importante è non cercare di compensare l’errore fatto favorendo chi l’ha subito, così si viene a creare solo confusione e la partita può sfuggire di mano. Ho capito che se alla fine della gara nessuno parla dell’arbitro, quel match è stato ben arbitrato».

Da arbitro ovviamente Savaris è incorso in tante situazioni e in tante realtà. Quella che più è rimasta impressa all’arbitro è Bolzano, con cui aveva un rapporto non proprio ottimale.

«I pubblici più caldi che ho avuto modo di conoscere sono quelli di Milano ed Alleghe. Sicuramente chi mi odiava di più era però il Bolzano. Lì non ero ben visto: ero Veneto ed avevo giocato con il Cortina…io comunque cercavo di rimanere sempre imparziale, anche io ho sbagliato ma sempre in buona fede, posso assicurarlo. Alla fine a Bolzano non mi volevano più e non ero molto ben visto ma non ho niente da rimproverarmi. Si dice che i bolzanini erano protetti da noi arbitri, ma sinceramente non lo so. L’unica cosa che posso dire è che di arbitri ce n’erano pochi e molti di loro venivano proprio dalla cittadina altoatesina. Però parlare di un arbitraggio a favore penso sia eccessivo…».

Quale aneddoto della sua carriera ti ha colpito in particolare?

«Nel mio primo anno come capo arbitro ho arbitrato la coppa Ferotti e ho appreso un gran insegnamento. In un momento di confusione quando avevo fischiato una penalità, Gino Pasqualotto, star del Bolzano e mio amico si è reso autore di una sceneggiata nei miei confronti. Da quel momento ho capito che sul ghiaccio non si hanno amici, soprattutto se si ha il fischietto».

Concentrandoci sul presente qual è la situazione riguardo agli arbitri di hockey qui in Italia?

“«Sicuramente, come accade quasi in ogni sport, gli arbitri sono visti un po’ come delle pecore nere. Le società da questo punto di vista non aiutano il movimento e la federazione. Posso considerare come miei successori Cassol e Pianezze, che hanno arbitrato con me e con cui ho un bellissimo rapporto. Tra colleghi si va d’accordo e spesso mi chiedono dei consigli. Di solito una cosa è fondamentale e la ripeto: ci deve essere rispetto tra direttori di gara e giocatori, solo in questo modo si evitano le polemiche. Bisogna pensare che pure l’arbitro è un essere umano e che dunque può fare i suoi errori, così come li fa chi gioca ad hockey». —


 

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