Stefano Bellotto, un jet in pista e con il bob

Lo sprinter di Lamon ha la velocità nel sangue. Plurititolato, oggi si diverte fra i Master ma ha partecipato anche ad una Olimpiade
LAMON. Trovare atleti che raggiungono l’eccellenza assoluta in un territorio come quello feltrino non è scontato, trovarne due nella stessa famiglia, due fratelli sull’altopiano di Lamon, parrebbe quasi impossibile. Invece, Daniele e Stefano Bellotto hanno letteralmente sovvertito ogni previsione. Il primo calciatore di ottimo livello, capace, tra le altre gemme di una bella carriera, di far impazzire l’Arechi di Salerno in un famoso derby con il Napoli, il secondo rimasto per molti anni tra i jet più veloci d’Italia, in grado di disimpegnarsi al meglio sia sui 100 sia sui 200 metri, con tempi che chiariscono perfettamente la qualità dell’atleta: 10”41 sui 100 e 20”87 sui 200. Come non bastasse, dalle prove regine dell’atletica, Stefano Bellotto in men che non si dica è passato alla velocità dei bob, perché in fin dei conti sempre di velocità si tratta, partecipando addirittura da riserva alle olimpiadi di Nagano.


La passione per la corsa e, più in generale per l’atletica, è qualcosa che Stefano Bellotto ha nel sangue.


«Ho iniziato a correre già alle elementari, avevo un sogno che era quello di diventare il più veloce di tutti e, una volta giunto alle medie, non vedevo l’ora di cimentarmi con gli altri, ma soprattutto che arrivasse l’ora di ginnastica. Io ho tormentato il mitico professor Ennio Dall’Agnol e lui, viceversa, appena ha intravisto che avevo delle qualità per l’atletica, mi ha seguito con quella particolare assiduità che sapeva mettere. Il professore ha allenato tantissimi ragazzi, soprattutto a Lamon, sotto le sue grinfie in molti si sono avvicinati all’atletica. Una volta passato alle scuole superiori ho comunque continuato ad allenarmi a Feltre con Dall’Agnol, che nel frattempo si era trasferito alla scuola Rocca».


Una volta approdato alla pista in sabbia rossa dello Zugni Tauro i risultati son ben presto arrivati. Tutto facile o ci sono stati grandi sacrifici?


«Con Mario Santomaso e con l’Ana Atletica Feltre ho avuto un’importante evoluzione tecnica e mi sono integrato in un gruppo bellissimo, con Graziano Santomaso, Piero Nicolao, Marco Zatta, Marco Capretta e Marco Dall’Armi, arrivando a stabilire il record provinciale della staffetta in 41’’5 nel 1989, primato tuttora imbattuto. Il primo anno è stato il più massacrante della mia carriera di atleta, perché con Mario Santomaso siamo passati ad allenare lo sviluppo della tecnica, con balzi, skip e via proseguendo. Ricordo ancora che quell’anno al mattino, quando si trattava di compiere i primi due passi sceso dal letto, faticavo a stare in piedi dal male. A livello tendineo ero molto debole, ma con l’allenamento ne sono venuto a capo. Certo è che ce l’ho fatta grazie alla mia caparbietà, non so se al giorno d’oggi un ragazzo avrebbe superato quelle sofferenze».


Le motivazioni hanno segnato spesso la differenza nella tua carriera di atleta?


«Ero spinto dal sogno di essere il più veloce, avevo quel traguardo da raggiungere e, perciò, avevo motivazioni molto forti. A livello regionale, come squadra di staffetta all’Ana Atletica Feltre, rivaleggiavamo con il Cus Padova o con le Fiamme Oro. All’epoca sotto gli 11” andavano in dieci o dodici, mentre dagli 11” agli 11”20 c’erano una ventina di sprinter. Oggi ai regionali Allievi o Junior ci si va anche con un 12”».


Poco alla volta arrivano i riconoscimenti, che sono figli di risultati cronometrici molto rilevanti, ma pur sempre in un mondo dell’atletica ancora a pane e salame.


«Agli Italiani juniores di Cesenatico nel 1989 fissai il crono sul 10”62, che mi valse il quarto posto. Verso le 22 Mario Santomaso e io ripartimmo alla volta di Feltre, ma successe che l’auto di Mario avesse un problema all’impianto a gas, che la faceva morire a ogni semaforo o stop. In pratica, ogni volta dovevo scendere, spingere e farla ripartire. Arrivammo alle 5 del mattino e io ero in preda ai crampi. Altri anni decisamente. In quegli anni, poi, ancora da junior partecipai agli assoluti di Milano, chiudendo sesto o settimo, nonostante uno strappo al polpaccio».


La vita di chi frequenta le prove veloci nell’atletica corre lungo un sottile filo, come un equilibrista. Già il fatto di giocarsi una preparazione intera in poco più di 10 o 20 secondi è qualcosa di particolare, ma in agguato c’è sempre l’infortunio, considerate le sollecitazioni alle quali sono chiamate le fibre muscolari.


«
È un niente, ti basta una contrattura e hai mancato l’appuntamento principale per il quale ti eri preparato, per non dire di uno stiramento. Sono inconvenienti che devi sempre mettere in conto e quindi bisogna esser bravi ad ascoltare il corpo mentre compi il gesto, ma spesso non ti basta, perché l’infortunio ti capita nel momento di forma massima, quando ti viene tutto facile, sei brillante, non senti la fatica e quindi succede quello che non dovrebbe accadere. Lì entra in gioco l’esperienza, necessaria per imparare a gestirsi».


Un altro aspetto del tutto peculiare, per chi decide le sorti della propria carriera sportiva in pochi secondi, è senza dubbio legato allo start, a quei frangenti che passano prima di liberare tutta la propria carica agonistica in pista.


«Io non sentivo nulla, dagli spalti potevano urlare quanto volevano, ma era tutto ovattato, con un unico obiettivo: quello di percepire immediatamente lo sparo».


Dopo i risultati positivi da junior, la tua carriera ha rischiato di non decollare per colpa di una cartolina, vero?


«Avevo chiesto di poter entrare nella Polizia, ma mi arrivò la cartolina dell’esercito e finii con molti miei coetanei a Imperia. Il presidente dell’Ana Bonzo si fece in quattro per riportarci con gli alpini e così tornammo a Belluno. Rimasi fermo per quattro mesi e poi entrai nel gruppo sportivo dell’esercito a Roma. Ancora prima di finire il servizio di leva feci domanda per entrare nei Carabinieri. Nel frattempo, finito il militare, feci persino l’aiuto pasticciere a Lamon. Mi arruolai infine nell’Arma e mi ci volle oltre un anno per poter approdare finalmente al gruppo sportivo. Per fortuna i risultati erano molto buoni, nel ’91 per esempio feci registrare un 21”4 sui 200 e così venni aggregato agli atleti dei Carabinieri».


La carriera di Stefano Bellotto con i Carabinieri si arricchisce di traguardi importanti: cinque volte campione italiano con la staffetta 4x100, due volte campione italiano con la staffetta 4x1 giro indoor, una volta campione italiano con la staffetta svedese, quarto assoluto ai campionati italiani di Rieti sui 100, terzo assoluto agli italiani di Catania sui 200 e ancora campione del mondo militare con la staffetta 4x100 a Catania nel 2004, solo per citare i traguardi più ambiti centrati dallo sprinter lamonese.


Quando l’esperienza nella velocità su pista sembrava giunta a una fase di stallo, ecco la velocità su ghiaccio.


«Nel ’96 avevo iniziato male la stagione, perché mi ero strappato l’adduttore a Modena, sotto la pioggia, vincendo comunque la gara in 21’’70. La stagione agonistica era praticamente compromessa, tanto che non sapevo se mi avrebbero tenuto nel gruppo sportivo. Un amico delle Fiamme Oro, Enrico Costa, anche lui velocista, mi invitò a provare la spinta del carrello per il bob e la cosa sembrò subito divertente. Dopo tre mesi, infatti, mi ritrovai a Cortina a fare le spinte col bob vero. La prima discesa fu pazzesca, adrenalina a mille. Fu tutto molto veloce, le spinte andavano bene, entrammo nella squadra Fisi di coppa Europa e l’anno successivo in coppa del mondo, con il bob a due e con il bob a quattro. Nel bob a due ero troppo leggero, con i miei 82 kg, per cui mi specializzai in quello a quattro, tanto da partecipare alle Olimpiadi di Nagano nel 1998, come riserva».


Per il bob e per i Carabinieri quelle furono Olimpiadi straordinarie.


«Vincemmo l’oro nel bob a due con Huber e Tartaglia, entrambi Carabinieri. Nel complesso fu un’esperienza indimenticabile, vivevamo al villaggio olimpico, rimanemmo in Giappone venticinque giorni, vivendo sia la cerimonia inaugurale, sia quella di chiusura. È stato senza dubbio il ricordo più bello della mia carriera sportiva».


Qual è, invece, la gara nella tua esperienza nell’atletica che ti rimane maggiormente nel cuore?


«Avevo un grandissimo rispetto per atleti come Tilli, Vullo e Pavoni e non credo di essere mai stato così soddisfatto come quella volta in cui riuscii a battere Tilli, che va detto era a fine carriera, con un ottimo 10”45».


Quale futuro attende la nostra atletica?


«La mia disciplina sta vivendo un momento di magra, soprattutto per l’assenza di tecnici. Non ci sono più i centri federali, non ci sono praticamente più i raduni federali e, se ci sono, sono contati, al lumicino. È chiaro che in un contesto come questo non alleni la qualità. Tutto è demandato alle società sportive, ma non è assolutamente sufficiente. Gli stessi gruppi sportivi delle forze armate hanno chiuso i rubinetti, prendono solamente chi ha già conseguito titoli, ma se ha già dei titoli significa che probabilmente quell’atleta ha già dato il meglio di sé, togliendo nel contempo chance a chi emerge dopo. Io, per esempio, ho vissuto i miei anni migliori tra i 31 e i 35 anni e tuttora mi sto divertendo moltissimo, centrando anche qualche risultato di prestigio, come il terzo posto agli europei Master di Ancona».


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