Tormen: «Io al servizio ma non servo del pallone»

Colonna del calcio bellunese, Antonio Tormen oggi è osservatore e può permettersi dei “no”

BELLUNO. Colonna del calcio bellunese, Antonio Tormen oggi si gode la pensione dedicando ancora del tempo, tanto, al suo primo amore: il pallone. «L’indipendenza economica mi permette di poter dire sì o no alle proposte che mi giungono dal mondo del calcio a cui non sono legato da un rapporto morboso, tutt’altro», dice l’ex centrocampista che in carriera ha disputato oltre quattrocento partite da professionista girovagando per l’Italia, da nord a sud, lasciando ovunque un ottimo ricordo. Perché i calciatori che lottano e non si risparmiano sono sempre quelli maggiormente apprezzati.

Volendo ripercorrere velocemente la carriera da calciatore, da dove partiresti?

«Dalla serie A, senza dubbio. Perché è stato l’apice anche se le esperienze più intense e durature le ho vissute in serie C tra Udine, Modena e Foggia. Arrivare nella Fiorentina giovanissimo, direttamente da Belluno che è la mia città e che prima di allora non avevo mai lasciato, è stata una esperienza che mi ha segnato. Ho esordito nella massima serie a Marassi, contro la Sampdoria. Di quella partita ho un ricordo sfumato perché è passato tanto tempo, ma giocare al fianco dei vari Antognoni, Caso, Roggi, Guerini o del povero Beatrice è stato bello».

Un’altra esperienza che porti nel cuore è legata agli anni di Livorno, dove di recente ti hanno invitato in occasione del centenario del club amaranto...

«Esatto, mi ha riempito di orgoglio ricevere l’invito per la festa del centenario del Livorno. Negli anni da quelle parti sono passati fior di giocatori, anche di altissimo livello, ma Livorno è una città che non dimentica chi ha lasciato un segno con la maglia amaranto addosso; ed io sono felice di essere stato annoverato tra quelli. Sono stato invitato anche alla festa del Foggia, altra città che ricordo con piacere».

Eppure quello indissolubile è il legame col Belluno: partiamo dalle esperienze da calciatore?

«Ho giocato col Belluno in due fasi della mia carriera, agli inizi ed alla fine. Ho esordito nella stagione ‘72/’73 quando ero giovanissimo. Ero l’unico in rosa di Belluno e militavamo in una C che era un campionato durissimo. Ricordo che la domenica lo stadio era sempre pieno, parlo di una media di quattro cinquemila spettatori con punte di sette ottomila in occasione dei derby contro Treviso, Udinese, Triestina, Venezia e Padova. Allora lo stadio di Belluno non era come quello di oggi, aveva cinque tribune in più. Quella serie C era un campionato di altissimo livello. L’anno dopo giocai titolare ed alla fine del campionato arrivò la chiamata della Fiorentina. Tornai a Belluno a fine carriera dopo aver girato l’Italia in lungo ed in largo. Vincemmo la prima categoria, andando in Promozione; ma all’età di 34 anni decisi di smettere. Oggi, ripensandoci a mente fredda, forse smisi un po’ presto: qualche altro anno l’avrei potuto fare».

Dal campo alla panchina il passo fu breve, sempre col Belluno nel destino.

«Collezionai la prima esperienza in panchina nella stagione ‘89/’90 che si concluse subito con la vittoria del campionato di Promozione ed il salto in D, perché a quei tempi non c’era l’Interregionale. Partii col botto, insomma. Al Belluno mi legano le esperienze più importanti da allenatore, su tutte la vittoria del campionato nel 2002/2003 che ci portò in C2 dopo una corsa alla pari col Bassano decisa dallo scorso diretto alla penultima giornata; ma l’anno prima arrivammo secondi alle spalle del Pordenone. Ci tengo a ricordare anche le esperienze di Santa Lucia, dove rimasi cinque anni, ed anche quella di Feltre dove persi uno spareggio per il salto in Eccellenza contro il Dolo al termine di una partita che meritavamo ampiamente di vincere. Fu quello il momento più alto del calcio feltrino che mai aveva disputato un torneo di vertice. Purtroppo nel calcio ci si ricorda di qualcuno solo quando si vince: se invece arrivi secondo, terzo o quarto non sei nessuno. Questo è il grosso limite del calcio italiano, a qualsiasi livello».

Archiviata anche la carriera da allenatore, l’avventura nel mondo del calcio è proseguita nelle vesti di diesse.

«Ho fatto sette anni il direttore sportivo, quattro stagioni a Belluno e tre a Mezzocorona. Quella in Trentino la ricordo come una esperienza straordinaria. La società era organizzatissima e l’ambiente ideale per fare calcio. Poi purtroppo la morte di un dirigente fondamentale per gli equilibri interni portò presto la società nel baratro. A Belluno invece le esperienze da direttore sportivo si dividono in due parti. L’inizio fu positivo, sotto la gestione del presidente Marcon; ma la sua uscita di scena aprì una crisi dura da arginare. Quelli furono gli anni peggiori per il calcio bellunese».

I tempi moderni legano invece la figura di Antonio Tormen principalmente al calcio giovanile, sempre però col Belluno sullo sfondo.

«Iniziai a lavorare con i giovani due anni fa in qualità di responsabile delle attività giovanili per la Figc di Belluno. Non so se per merito mio o meno, ma quell’anno allestimmo due rappresentative, una allievi ed una giovanissimi e con questi ultimi ci laureammo campioni regionali. Un successo irripetibile».

Poi il settore giovanile del Belluno ed un finale forse un po’ a sorpresa...

«Le strade si sono divise pacificamente, senza problemi o rancori. Ci fu una diversità di vedute con qualcuno che portò ad una rescissione consensuale dell’accordo di collaborazione; ma ci tengo a chiarire che l’aspetto tecnico nella vicenda non c’entrava nulla. Anzi, con me il settore giovanile del Belluno ha ottenuto risultati molto importanti. Addirittura un ragazzo degli allievi, Marta Bettina, oggi staziona in pianta stabile in prima squadra, evento unico per il calcio bellunese e motivo di grandissimo orgoglio per tutti. Abbiamo fatto un lavoro straordinario e questo è quello che conta, il resto lascia il tempo che trova. Il fatto che collaboro ancora col Belluno testimonia di come i rapporti siano ottimi».

Che ruolo ricopre oggi Tormen nel Belluno?

«Collaboro col tecnico Roberto Vecchiato per il quale svolgo il ruolo di osservatore. Mi piace tantissimo perché mi lascia parecchio tempo libero durante la settimana mentre nel week end mi permette di girare sui campi. Ho visto tutte le squadre dell’attuale D».

A proposito di serie D, dove possono arrivare il Belluno e l’Union Ripa La Fenadora?

«Il girone C di serie D ha un livello qualitativo molto basso, frutto anche della crisi che attanaglia alcune società, su tutte le friulane. Il Venezia è la favorita ed alla fine vincerà il campionato anche perché ha speso quattro volte di più delle sue concorrenti. E poi non so quanto il Campodarsego potrà reggere. La situazione in classifica è già ben delineata con le tre squadre dietro le battistrada, ovvero Belluno, Virtus Vecomp e Este, che disputeranno i play off. L’Union si salverà sicuramente: intanto perché ci sono squadre molto meno attrezzate e poi perché, checché se ne dica, quella feltrina è un’ottima squadra che ha l’ esperienza per tirarsi fuori dalle sabbie mobili».

Per chiudere, oggi Antonio Tormen cosa fa quando è lontano dal calcio?

«Il pensionato. Mi godo la vita serenamente proprio perché il mondo del calcio non mi deve dare da mangiare; e per questo posso dire sì o no ad una eventuale proposta. E di proposte negli ultimi tempi ne sono arrivate parecchie».

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