Il cuoco che cucina pastin ai giapponesi
Ivan «Yoko» Burigo prepara specialità bellunesi anche per i boss della Formula 1
Ivano Burigo durante una lezione ai cuochi giapponesi
BELLUNO.
Un destino scritto nel soprannome che gli era stato affibbiato alle scuole medie, quel «yoko poko» che voleva sottolineare senza cattiveria la scarsa propensione per il calcio. Le sue soddisfazioni però Ivano Burigo (tutti lo chiamo Ivan) se le è prese in altri campi. Cuoco a Venezia, Courmayeur, Vail - solo per citare alcuni luoghi - da quasi vent'anni si trova in Giappone, dove stuzzica i palati nipponici con le specialità italiane e bellunesi. «Il pastin? Va a ruba». E le sementi arrivano direttamente da Castion. Altro che sushi.
Quella di Burigo, classe 1961 di Castion, è la storia di un ragazzo legato alla sua terra, ai suoi affetti e alla sua grande passione, la cucina. Fin da bambino deliziava i compagni con torte e leccornie di ogni genere, poi la scuola alberghiera a Falcade, la naja e quelle scelte dolorose ma inevitabili per poter crescere professionalmente. Oggi Burigo è uno che ce l'ha fatta. Conosce il mondo e le lingue, parla con semplicità ed emozione, sogna ancora e si commuove. «Mi trovavo davanti alla televisione giapponese e ho visto un documentario che parlava del Pelmo e del Vajont. Poi hanno inquadrato per un attimo il cartello Castion. Mi è scesa una lacrima».
Dietro la sofferenza del distacco, c'è sempre stata la voglia di farcela. Un'esistenza fatta di piccoli traumi alternati a grandi passi. A farcirla un'altra grande passione, quella per i motori. Ma, in questa vita da romanzo, è meglio andare con ordine.
Burigo, lei è un cittadino del mondo, ma è orgogliosamente bellunese...
«Certo. Sono nato a Belluno, poi ho frequentato le elementari e le medie a Castion. Mi chiamavano "pit" perché ero legato morbosamente a mia madre. Quando si organizzavano le prime festine preparavo i dolci con lei. Credo sia stato l'attaccamento nei suoi confronti a spingermi a fare questa professione. Poi, finite le medie, mi sono iscritto all'alberghiero di Falcade. Ho sofferto del distacco. I pianti e la nostalgia di casa erano enormi».
Quando le è stato affibbiato il nome di «Yoko»?
«Ho sempre avuto poca vocazione per il calcio, così un giorno scherzando dissi ai miei amici che mi sentivo come il tredicesimo giocatore della nazionale giapponese "Mi no yoko mai". Da lì è nato il mio soprannome. Quasi un segno del destino».
In effetti, in Giappone è arrivato quindici anni più tardi...
«Dopo il diploma all'alberghiero e la naja alla Fantuzzi ho cominciato a girare il mondo. Ho alternato tante esperienze, dal Colorado alla Thailandia. All'epoca non c'era nemmeno l'aereo per Phuket. A Venezia facevo tappa fissa al Cipriani».
Quando è avvenuto il grande salto?
«Ero reduce da una esperienza nel New Jersey. Quando tornai a Venezia, era il 1989, venni convocato dal direttore. Me lo trovai davanti con due giapponesi. Volevano che aprissi un ristorante italiano in Giappone. Lì per lì rifiutai. I giapponesi non mi avevano mai fatto una bella impressione. Quando ero negli Stati uniti li vedevo girare in gruppo mangiando tutto quello che veniva loro proposto. Vedevo un popolo perso fuori dalle proprie mura e dissi seccamente di no».
Come mai cambiò idea?
«Il giorno dopo si presentarono con un depliant dell'albergo. Era l'hotel Suzuka Circuit, di proprietà della Honda Motors».
E qui riaffiora la passione per i motori...
«Fin da giovane mi attraeva tutto ciò che correva in pista. Quando vidi stampata sulla brochure una McLaren bianca e rossa, rifiutare divenne impossibile».
Questo sì era un distacco....
«Inizialmente mi proposero due anni. E se l'ambiente non mi fosse piaciuto? Alla fine ci concordammo per un anno. Come la naja».
Ma Suzuka, immagino, non è la Fantuzzi...
«Prima di stabilirmi mi proposero un viaggio di due settimane. E' stato il classico viaggio che ti cambia la vita. Mi sono accorto fin dal primo momento che il paese era a misura d'uomo nonostante i suoi 130 milioni di abitanti. Tutto funzionava a meraviglia. Rientrai in Italia sicuro e determinato. Mi avevano convinto. Nel gennaio del 1991 mi sono trasferito per il mio primo anno di attività».
E con la lingua?
«Era un problema, ma alla fine mi fecero accompagnare da un mio caro amico di Fiera di Primiero e da un'interprete. Dovevamo mettere in piedi un ristorante in meno di tre mesi. Il 20 marzo dovevamo essere per forza operativi. L'apertura era prevista per il Gran premio del Motomondiale. Lo chiamammo ristorante Campanella, più o meno la traduzione in italiano di Suzuka».
Un battesimo infuocato...
«Fu un lavoraccio. I lavori erano in ritardo, ma soprattutto era difficile reperire la merce. Vent'anni fa i prodotti freschi, dalla mozzarella al mascarpone, arrivavano in Giappone due volte al mese. Se rimanevi senza eri spacciato. Comunque ne siamo usciti vivi, lavorando senza sosta per dieci giorni. Dopo il Gp ci mandarono in vacanza alle Hawaii per una settimana. Lì ho capito che dal Giappone non me ne sarei andato tanto facilmente».
Ha anche conosciuto l'amore...
«A metà anni Novanta decisi di ritornare in Italia e di trascorrere in Giappone solo sei mesi all'anno, ma poi ho incontrato mia moglie Mika. Abbiamo un bimbo di dieci anni, Jo-Riccardo. Nel frattempo, ho avviato l'apertura di un ristorante a Motegi, una sorta di Indianapolis alla giapponese. Si chiamerà "Green-bay"».
E' vero che coltiva un suo orto?
«Sì e le sementi arrivano da Castion, dove torno sempre almeno una o due volte all'anno. Semino ortaggi ma soprattutto erbe aromatiche. Mi faccio anche i salami, il pastin e la ricotta».
Hanno successo?
«In una occasione del Gp mi azzardai a proporre un menù tipico bellunese ai boss della federazione. C'erano la polenta del mulino De March di Castion, il pastin, lo schiz e i finferli. Anche i radicchi conditi con il lardo. Il successo fu straordinario. Adesso è un must del mio menù. A Pasqua invece faccio focacce e colombe».
Com'è il popolo giapponese?
«Sono molto rispettosi, educati, discreti e gran lavoratori, ma sono molto, molto, misteriosi. Quando credi di averli capiti, ti sei sbagliato una volta ancora»
E Belluno?
«Non l'ho mai dimenticato. Quella sera che ho visto il cartello di Castion in tv mi è venuto il groppo in gola. Qui ti senti davvero lontano da Belluno».
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